Nel 2020, al termine dell’ultima edizione del Calendario dell’Avvento Freelance, non c’è stata nessuna casellina 25.
Ogni anno, alla fine del progetto, pubblico la casellina 25 e ci piazzo dentro un pezzo scritto di pancia o un video struggente. Di solito lavoro allo script di notte, consumata dalle emozioni e poi registro il voice over seduta nella doccia con il microfonino inzuppato di lacrime.
Perché sono così e lo sarò sempre temo (o forse no?): smodatamente sensibile.
Sensibile al cambiamento, all’amore, al dolore. Più genericamente sono sensibile al mondo e a tutto ciò che ci capita sopra.
Ho pianto per ore, inconsolabile, quando il mio pupazzo pinguino è precipitato in un piatto di minestrone all’asilo, non credo ci sia da stupirsi per tutto ciò per cui ho pianto da quel momento in poi.
Ho pianto, a tratti, anche scrivendo questo post. Vi chiedo di mettervi comod*, perché ho tante cose da dire e voglio dirle tutte d’un fiato.
Il 2020 per me è stato un anno di grande apertura. Mi sono ritrovata a scrivere su Instagram delle mie paure, dei miei fallimenti, di attacchi di panico, mostri e abbandoni. L’ho fatto con le mani pesanti, un timido tremolio nella voce e il cuore dischiuso.
L’ho fatto e non me ne pento. Ero sola durante il lockdown, con un passato di terapie fallimentari e una forte predisposizione alla malinconia. Avevo bisogno di rompere quel silenzio. Sentirmi vicina ad altr* che, come me, avevano paura (nonostante la posizione privilegiata e la fortuna di dover “solo” restare a casa). In poch* parlavano delle conseguenze psicologiche che la chiusura avrebbe avuto sulle persone definite più “fragili” (a me piace di più il termine “sensibili”). Però alcun* lo facevano e io mi sentivo meglio. Così ho pensato “forse farà bene anche a me. Forse il mio parlare farà bene anche ad altre persone.”
Non è mai stato facile, ogni volta che allentavo la fessura sul mio torace per mostrarvi quel poco di più.
Se ti esponi le persone si sentono autorizzate a criticare, commentare, a volte ferire. Vedono l’1% di ciò che sei, o di ciò che fai, e pensano di conoscerne il restante 99%.
Le bugie più grandi che ti diranno? Che “te la sei cercata”, che “devi accettare tutte le critiche” e, soprattutto, “guarda che lo dico per te”.
Nel 2020 ho dunque deciso di aprire una finestra sul mio mondo interiore, conoscendo bene i rischi a cui mi stavo esponendo. L’ho fatto per le seguenti ragioni:
- Il mio lavoro è frutto del mio vissuto e a volte, per comprenderlo, è utile conoscerne i retroscena.
- Mi piace mostrare il mio lato umano, non solo quello professionale. I clienti che scelgono di lavorare con me scelgono anche la persona con cui intraprendere un rapporto continuativo basato sulla trasparenza, la fiducia, l’empatia. Racconto storie, non potrei farlo senza raccontare la mia, per prima.
- Il mondo, che diamine, è un posto libero e io voglio sentirmi così ogni volta in cui mi è possibile. Non ho scelto di lavorare freelance per rinchiudermi in una gabbia.
- Per me non era più sostenibile vivere in un mondo di finzione, in cui mostrarmi felice a tutti i costi perché le altre persone mi sembravano sempre più appagate, interessanti, di successo.
Ho, quasi sempre, ricevuto grande supporto, affetto e comprensione. Non solo quello, però. Ho anche ricevuto critiche (non sempre costruttive) e affondi. Alcune volte ho risposto con serenità, magari rendendomi conto di aver sbagliato qualcosa. Altre volte, invece, ho sofferto.
Mi sono interrogata spesso su ciò che stavo facendo, e su DOVE lo stavo facendo.
La critica più dura è stata quella in cui una persona a cui voglio bene mi ha detto che stavo spettacolarizzando il mio dolore. Per questa persona cercavo consenso strumentalizzando le mie esperienze nella vita reale. E che avrei dovuto separare quei vissuti dal mio lavoro, per non rischiare di perdere clienti o di compromettere la mia immagine professionale. Mi sono interrogata a lungo sulla questione perché qualsiasi commento innesca in me un meccanismo potentissimo di autocritica.
Se avessi strumentalizzato consapevolmente quel dolore, oggi avrei il triplo dei followers. Il dolore per me non è uno strumento ma un peso. Qualcosa da cui desidero liberarmi per sentirmi più leggera. Uno strumento, invece, è:
1. Genericam., arnese, congegno, dispositivo e sim., necessario per compiere una determinata operazione o svolgere una attività.
Treccani
Qualcosa che ti procuri con intenzione, per fare qualcos’altro con altrettanta intenzione.
Capite la differenza, vero?
Ora, facciamo un passo indietro.
Instagram nasceva, anni fa, come il luogo delle colazioni perfette, dei piedi sulla battigia, dei ricordi felici. Poi si è trasformato in altro: un luogo in cui promuovere il proprio lavoro, cercare clienti, vendere prodotti. Oggi è questo ma anche molto di più.
Su Instagram sono nati movimenti, si combattono battaglie, ci si racconta e ci si mette a nudo, si prova a rendere umano un mezzo tecnologico. Per esperienza posso dirvi che le connessioni diventano spesso relazioni, gli abbracci virtuali si concretizzano dal vivo e il calore umano arriva anche via inbox.
Certo, non tutt* lo utilizzano così. C’è chi esaspera le proprie esperienze, chi copia, chi ruba (letteralmente), chi compra followers, chi falsa la propria immagine, chi racconta una perfezione che non esiste, chi mente.
Poi c’è l’algoritmo. Una formula matematica che decide chi premiare e chi no. Più vieni premiat*, più desideri esserlo. Più vieni penalizzat*, più desideri quel premio. In entrambi i casi:
rischi grosso se non impari a guardare con distacco e raziocinio le tue metriche.
Perché poi c’è l’AID (Internet Addiction Disorder), per cui a volte capita che ci si ammali e si diventi letteralmente dipendenti dai social, Instagram compreso (a tal proposito, potreste voler approfondire il discorso qui).
Instagram (come tutti i social media) è un luogo pericoloso se non lo utilizzi con attenzione. La pericolosità non è dettata dal mezzo, ma dalle modalità con cui le persone, a volte, lo utilizzano.
Può diventare un efficace strumento per guadagnare, un ottimo modo per restare in contatto con persone lontane, un meraviglioso album di ricordi e può diventare un diario in cui raccontarti ed instaurare nuove amicizie. Tutto questo se lo usi con consapevolezza, serenità e con moderazione. E se scegli bene chi far comparire nel tuo feed.
Diventa pericoloso quando passi la maggior parte del tuo tempo a fare paragoni. Quando cominci ad ossessionarti sui numeri. Quando elimini una fotografia in cui eri felice perché non ha avuto abbastanza like. Quando cominci a pensare che la tua vita valga meno di altre vite.
Io, a questo punto qui sopra, ci ero arrivata, qualche anno fa. Stavo sotto ai 10k e quando è così, per le aziende quasi non esisti (anche se ora si comincia a parlare di micro-influencers). Quando li ho raggiunti ho creduto di aver vinto alla lotteria. Quando mi sono bloccata ad 11 e non sono cresciuta più ho cominciato a domandarmi perché i miei contenuti non fossero più interessanti. Perché la mia vita, non fosse più interessante.
Me ne sono resa conto. Contavo e non facevo altro quando aprivo l’applicazione. Mi sentivo costantemente inadeguata. Vedevo influencers i cui numeri crescevano vertiginosamente da un giorno all’altro. Contenuti virali che rimbalzavano di profilo in profilo e standing ovation per post eccezionali. Mi svegliavo e controllavo il mio engagement rate prima di bere il caffè. Mi lasciavo influenzare da quella maledetta percentuale e la mia vita vera, al di fuori dello schermo, cominciava a risentirne.
Ad un certo punto ho sentito dentro un’esplosione.
BASTA.
Il primo pensiero è stato quello di chiudere tutto. Poi, però, ci ho pensato su. Eliminare l’applicazione non sarebbe stata una soluzione.
Avrei perso tanto, andando via: occasioni di lavoro, clienti, ricordi.
Ciò che dovevo fare, dunque, era trasformare il mio modo di utilizzare il mezzo. Renderlo un posto piacevole, per me. Un luogo in cui divertirmi, lasciarmi ispirare. Creare legami, aiutare le persone e, perché no, guadagnare.
Poi, il lockdown. Ecco, è stato quello il momento in cui ho deciso di cominciare ad aprirmi veramente. Mostrare qualcosa in più sulla mia vita. Non tutto, ma quanto bastava per smettere di recitare una parte.
L’esordio è stato vincente (non in termini di numeri ma in termini di valore delle interazioni, perché ho passato la quarantena circondata dalla voce e dalle parole di persone straordinarie) e si potrebbe riassumere con:
Ciao a tutti, la mia vita non è perfetta. E chissene.
Esporre la mia fragilità su un social che troppo spesso (non sempre, ma troppo spesso) incoraggia alla perfezione, è stato un gesto liberatorio. Non coraggioso, ma audace quanto basta per una che ha sempre cercato di nascondere i propri difetti.
E oggi? Cosa è successo, un anno dopo?
Con questo lungo post non voglio necessariamente incoraggiarvi ad esporre il vostro lato più fragile/sensibile. Non dovete per forza raccontare i vostri mostri per sentirvi meglio.
Potete combattere le vostre battaglie interiori nell’intimità della vostra vita privata e mostrare sui social ciò che desiderate, sempre.
Una cosa, però, non la dovete fare. Pensare che le vostre vite, le vostre imperfezioni, i vostri dolori, valgano meno di qualsiasi altra vita, imperfezione o dolore. E, soprattutto, non dovete mai pensare che valgano poco perché sono poche le interazioni sotto a quei racconti di vita o di dolore.
Le metriche, i like, i numeri…non colmano, non cicatrizzano, non nutrono e, soprattutto, non incoraggiano ad una creatività pura e autentica.
Dovete trovare il vostro modo di raccontarvi, senza compromettervi e senza mettere in pericolo la vostra integrità, la vostra salute mentale, la vostra arte. Che sia su Instagram, Facebook o qualsiasi altro social. Che sia sul vostro blog, nella vostra newsletter o sul vostro diario. Trovate una dimensione in cui condividere per il puro gusto di condividere.
Dividere insieme con altri.
Senza aspettarvi nulla in cambio. Senza attendere ossessivamente la validazione dei vostri contenuti, quando i contenuti sono la vostra vita.
E poi, riabituatevi alla normalità. Alla lentezza. Al silenzio. Non sempre, ogni tanto può bastare. Restate nel momento.
Quando create qualcosa, pensate prima di tutto a voi.
Nessuna vita è perfetta. Nessun dolore è definitivo. Ciò che davvero conta è come vi sentite dopo aver lasciato al mondo ciò che non riuscivate più a trattenere.
Se ciò che avete condiviso è già il vostro traguardo, allora bene. Se invece fremete per visualizzarne le metriche, dopo aver condiviso, avete davanti una lunga corsa ad ostacoli.
E Instagram, così, vi rovinerà l’incanto e la seduzione della creatività nella sua forma più primordiale.
Quella cosa che ti fa svegliare all’improvviso, nel cuore della notte, e ti fa tremare le mani di fantasia. Quella cosa che, quando hai finito, piangi e hai ancora i brividi, perché è successo. Quella cosa che ti fa sentire la vita forte e chiara. A volte più scura, ma comunque incantevole ed incontenibile. Ed è la tua, e tua soltanto.
Io, a quella sensazione, non voglio rinunciare mai. Mai più.
Sull’argomento, vi lascio infine due Ted Talk che credo riassumano bene quel che io non sono stata brava a riassumere. Buona visione.
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